Le arti visive non sono affatto ferme. Si muovono perché si agitano cavalcando le onde della Storia, e per fortuna nostra anche recentemente. L’ evoluzione da una pittura astratta verso il recupero della figurazione è il percorso che la sensibilità artistica ha compiuto fra il secolo scorso e quello attuale. Sembrava che la fantasia creativa fosse negli anni ’70 definitivamente limitata ad operare nel regno infinito della non figurazione, che fosse questa geometrica oppure materica. Per giunta la fuga dalla tela stava allora portando all’ esaltazione dell’oggetto, del gesto teatrale o delle scenografie istallate, semmai all’ evaporazione minimalista che sola si poneva in contrappunto al segno concettuale.
E invece la pittura, il disegno che ne fa da struttura portante,la voglia di rappresentare il vero o la fantasia d’ un vero sognato, tutto il vasto bagaglio che millenni di storia aveva condensato, tutto un cosmo ormai magmatico si rimise a bollire, a vivere, a generare. Antonietta Innocenti è al contempo testimone e protagonista di quella pagina ormai acquisita anche se non ancora del tutto codificata. E per giunta è donna, donna artista e pittrice. Si sa che le donne, per fortuna dell’umanità, sono diverse degli uomini. Questa diversità ha origini nella notte dei tempi e ha destinato i generi a funzioni assai diverse. Le femmine sono polineuroniche: riescono a fare tante cose al contempo, possono esprimersi in linguaggi assai dissimili, almeno in apparenza; sono per natura ciò che ora si chiama multitasking. Il maschio mononeuronico si dedica con determinazione alla caccia come alla pittura, ma compie un percorso alla volta.
Una delle più intriganti scoperte del XX secolo è sorta dall’individuare una forma d’ arte “femminile”, dove questa pluralità del fare non è un vezzo ludico ma una necessità intrinseca del creare, una caratteristica antropologica. E nel volere fare cose diverse il solo campo della pittura si fece ristretto. Occorreva al contempo disegnare con ironia e dipingere con determinazione, plasmare le terre da cuocere e immaginare oggetti quotidiani da fabbricare. Ogni percorso ha servito a stimolare quello parallelo. E nella naturale complessità del suo indagare Antonietta Innocenti recepì tutto il mutare della lingua espressiva. La lunga stagione astratta che allora s’era imposta in Occidente vide Antonietta Innocenti inventare in modo personale assai delle pitture fatte di trasparenze cromatiche come se si fosse trattato di sovrapporre tessuti traslucidi; erano questi delle sorte di campi vibranti nei quali si veniva a collocare quasi naturalmente l’elemento allora bandito, la figura. In questo comporre si celava infatti un’autentica provocazione: il corpo umano e il nudo in modo particolare sembravano allora condannati ad un giudizio senza appello di obsolescenza.
Ebbe lei la sfacciata ambizione di porlo questo corpo nei suoi quadri; anzi decise di sovrapporlo ai suoi paesaggi astratti, come se la reminiscenza d’ un disegnare antico avesse voluto riemergere. I visi che inizialmente comparivanod ietro al tendaggio astratto, di volta in volta timidi o ansiosi come ricordi confusi, presero sempre più coraggio. I corpi seduti si sdraiarono nudi e senza vergogna. E infine i visi di donna ricomparvero determinati in primo piano, con labbra tornate carnose e rosse a celebrare il loro protagonismo.
Vi è in questa vasta e operosa produzione una curiosa peculiarità, come se fosse un’inattesa inclinazione alla conversazione: convivono e dialogano lavori di discipline diverse, opere ponderate e giochi ironici. La pittura e la scultura richiedono riflessione nel farle e nel guardarle; il disegno consente la velocità del pensiero e del gesto. Come tale il disegno consente il sorriso dell’ironia. L’ironia porta alla leggerezza e la leggerezza non è da confondere con la superficialità. La leggerezza è anzitutto una dote dell’anima, un modo del vivere e dell’affrontare il mondo. E’ uno stato di grazia. E di grazia, nel lungo percorso creativo di Antonietta Innocenti, ce n’è a profusione. La grazia è una qualità che manca, e per fortuna, al centurione. E’ tipica la grazia della puella latina antica, ed è quella qualità che si chiamava allora pulchritudo.
Pulcher est opus.