Tre promesse di fedeltà sembrano permeare l’operosità ormai pluridecennale di Antonietta Innocenti: fedeltà alla pittura, alla figura, alla eleganza. A provare che la prima promessa è stata mantenuta basta la constatazione della continuità della sua presenza, discreta ma tenace, nel fervore di differenziate ricerche che caratterizza la seconda metà del Novecento in Umbria: differenziate perché – nei centri più vivi – assai difformi nelle radici, nelle aspirazioni, nei riferimenti (tanto che, anche per l’ultimo secolo, parlare dì pittura “umbra” avrebbe poco senso): Perugia impegnata a investire, per nuovi profitti, sul capitale locale del secondo futurismo; Spoleto che, appena iniziati gli anni Cinquanta, accingendosi a comunicare con le novità dei grandi centri, compie la scelta singolare di chiudere con Roma e apre, invece, canali con Bologna, Milano, Torino; Terni, che continua ad affidare la sua “visibilità” alla longeva freschezza di pittori già attivi nella prima metà del secolo. E Foligno, la patria di Antonietta?

Qui la gara è stata, se non sbaglio, senza gli schieramenti che sono di solito accompagnati da richiami a eredità comuni e da strategie condivise. Molto personalizzata, intendo, e su corsie in genere poco tra loro comunicanti. Così, anche l’impegno della Innocenti, intenso e costante, presenta i tratti di una “storia” personale e anzi, per dir così, privata. La fedeltà alla figura è di quelle che non ammettono trasgressioni e, tanto meno, pentimenti. In un certo senso, la giovanile scoperta della figura sui banchi dell’Accademia, identificandosi, nella sensibilità dell’artista, con la scoperta della forma, non ha mai smesso di agire su di lei. Ma ciò non vuol dire che, lungo il percorso, con queste premesse coincidano in tutto e per tutto i risultati successivi e, in particolare, gli esiti attuali.

E’ vero che vi si può agevolmente cogliere una coerenza di base, cui corrispondono intuizioni e procedure costanti, ad esempio una specie di “espolio” che libera la figura di ogni accessorio naturalistico puntando l’intera posta su purità ricavate per via di semplificazioni geometriche e di riduzione del colore a chiasmo poco più che bitonale. Ma altro è l’aspetto, quasi prosciugato a forza di sottrazioni, dei modelli dei primi anni, che sottintende una volontà di ascesi o meglio una inclinazione autentica a ricercare l’espressività della forma attraverso un progressivo impoverimento; altro è l’amor di figura dell’ultimo periodo, in cui la sempre ricercata economia dei mezzi è posta al servizio di un’imagerie, prevalentemente femminile, ben provvista delle levigate seduzioni della donna di oggi.

I contorni si allargano in moduli più larghi, nei tagli sofisticati la figura invade la tela prepotentemente e talvolta con opulenta campitura di chiari e scuri. Infine, l’eleganza. Evidentemente, poiché si tratta di un richiamo al quale la Innocenti non sa e non vuole resistere, disponiamo qui di una chiave particolarmente efficace per comprendere meglio aspetti non secondari della sua personalità. E’ interessante che a questo richiamo l’artista non si sottragga mai, neanche quando, negli anni Sessanta e Settanta, abbandona temporaneamente il campo, a lei più congeniale, delle sintetiche circoscrizioni e degli equilibrati dosaggi chiaroscurali, cioè la figura. Mi riferisco alle partiture astratte, così accortamente calcolate nei ritmi di forme e nei caldi viraggi cromatici; ed anche alle tele che segnano il suo ingresso nella pittura-manifesto e nel writing pittorico, entrambi eredità della Pop e insieme connessi con l’impegno di quegli anni. Ma si tratta di una parentesi, per quanto lunga. Ed ecco, negli ultimi anni un deciso ritorno alla seduzione della figura, inseguita e goduta nella misura di una prosa o di un gesto. (2000)